Tuesday, March 6, 2012

amore a prima vista


Esattamente 14 anni fa, il 6 marzo del 1998, sono entrata al Bar Doney di via Veneto a Roma e ho conosciuto un giornalista americano alto e biondo, più giovane di me, con gli occhi azzurri, il sorriso Durbans e l'umorismo deadpan degli ebrei newyorchesi. Praticamente, un esemplare creato da Dio espressamente per me. O forse creato dal diavolo, perché se sicuramente la pentola era piuttosto attraente, il coperchio non si trovava da nessuna parte. L'incontro non era infatti per un cappuccino da sorseggiare tra sguardi languidi, ma un colloquio di lavoro. Lui, l'americano, doveva farmi il terzo grado per decidere se assumermi nel suo giornale e non per capire se fosse il caso di procedere con una cena a lume di candela. Io dovevo dare il meglio di me perche' questa era la mia grande occasione per uscire dalla redazione di un piccolo quotidiano ed entrare, sia pur dalla porta di servizio, nel salotto buono del giornalismo.

Ovviamente, ed esclusivamente per via delle mie credenziali professionali (minigonna di pelle e stivali con tacco a spillo), l'americano mi offri' l'assunzione. Tutto contento, mi disse: "Allora, ti dimetti e tra un paio di settimane vieni a Milano."

"Mi dimetto? Due settimane? E il contratto, dov'e', scusa? Io senza contratto scritto non vengo da nessuna parte. E poi, guarda che io devo dare due mesi di preavviso, eh?"

"Un contratto?", fece lui, preso completamente alla sprovvista. "Non ti basta la mia parola?"

A Neno, sarai pure strafigo, ma chi te conosce?, pensai io, ma poi risposi appena piu' educata: "No, vorrei una garanzia scritta."

Al che, comincio' un negoziato da teatro dell'assurdo, con lui sempre piu' sconvolto all'idea che questa semi-sconosciuta ragazzotta italiana si mettesse a trattare con il rappresentante dello Zio Sam invece di baciargli i piedi; e con me, che non so' nata ieri, che insistevo per avere tutte le garanzie scritte in triplice copia con firma di notaio. Quando, ottenuto tutto quello che volevo, mi misi a discutere sul periodo di prova, sicuramente il mio nuovo capo penso' di chiamare la neuro.

Ma tant'e'. La spuntai e mi imbarcai per la Capitale Morale, come Toto' e Peppino quando cercano la malafemmina. Li', cominciarono due anni di inferno. Invece della storia bollente con l'americano strafigo che mi ero immaginata, mi ritrovai alle prese con un lavoro da 14 ore al giorno in un casermone di periferia, sotto il giogo di un newyorchese nevrotico e workaholic. Lui si presentava in ufficio alle nove di mattina con le occhiaie nere e lo sguardo da pazzo; io arrivavo a mezzogiorno, truccata, profumata e fresca di palestra. Lui non staccava gli occhi dal computer, io ciancicavo al telefono con le amiche e nei corridoi con le colleghe delle redazioni vicine. Io scalpitavo per andare a casa per cena; lui ci teneva al chiodo fino alle 11 di sera per paura di perdere la notizia dell'ultim'ora.

Ma in tutto questo, con tutte le sofferenze lavorative, la cosa piu' grave, quella che davvero mi disturbava, era che l'americano NON CI PROVAVA. Il gossip tra tutti i giornalisti di Milano era che fossimo fidanzati e invece lui, niente, nemmeno uno sguardo, un accenno, un sorriso. Gli faro' schifo, pensavo io, non c'e' altra spiegazione. In compenso, mi telefonava a mezzanotte, di sabato, di domenica, quando ero in vacanza, e io ogni volta rispondevo tutta eccitata, e lui voleva soltanto parlare di lavoro. Sto deficiente, riflettevo e, ormai alla disperazione, accorciavo le minigonne, sbiondivo i capelli, aumentavo l'abbronzatura. Niente. Sembravo una versione nana di Brigitte Nielsen e lui, stoico, mi consultava solo su titoli e catenacci. Un incubo. A un certo punto, decisa a togliermelo dalla testa anche perche' in ufficio era un rompiscatole senza confini, ho perfino cambiato numero di telefonino. Cosi', pensai, non ricevero' piu' quelle chiamate deludenti. E lui, supplicandomi di dargli quello nuovo, mi disse: "Ti giuro, ti chiamero' soltanto per ragioni di lavoro." Che Dio lo perdoni.

Il climax arrivo' in una bollente giornata di agosto (agosto a Milano e' mortale), in cui mi giravano a mille per il caldo, il fatto che tutti fossero in Sardegna e io invece li' alle prese con il nevrotico, e la fatica di ore e ore in redazione a scrivere. Il capo scelse proprio quel giorno per chiamarmi nel suo ufficio e dirmi, tutto severo, che non poteva andare avanti cosi', dovevo presentarmi al lavoro piu' presto, non a mezzogiorno, mezzogiorno non va bene. Io impazzii. Sembravo Salma Hayek in "Dal tramonto all'alba" quando si trasforma in mostro orrendo. Prima gli urlai: "Aaaaaaaah, 12 ore al giorno non ti bastanooooo?" Poi, mi scaraventai in corridoio sbraitando, "Venite fuori, dalle altre redazioni! Lo dovete sentire questo che mi ha detto! Vergognati! Vergognati!" Una pazza. Le porte di tutti gli uffici si riempirono di teste. Lui, dietro di me, mortificato e cereo, a bassa voce, tentava di calmarmi: "Laura. Ti prego. Abbassa la voce. Ti prego." Arrivata nel mio ufficio, ormai in pieno delirio, presi in mano un tagliacarte e (giuro, e' vero) gli urlai: "Ti dovrei pugnalare con questo, capitooooo?"

Non mi ricordo nemmeno come fini', ma da quel giorno il mio capo americano non oso' piu' sgridarmi.

Poi, come Dio volle, un altro giornale offri' un lavoro al bello senz'anima, portandoselo fino alla lontana Hong Kong. Pur dispiaciuta della ridotta tensione sessuale in ufficio, io tirai un sospiro di sollievo e e continuai la mia vita.

Ma, quasi due anni dopo, ecco Gabriel 2, la Vendetta. Era ormai la fine del 2001. Un giorno mi arriva un'e-mail da Hong Kong, in cui l'ex capo mi annuncia il suo imminente viaggio a Roma, e chiede ospitalita'. Ho pensato subito, e mo' che vuole, questo? Pero' poi ho riflettuto che si', scemo era scemo, ma figo pure e allora la carne e' debole eccetera e cosi' accettai. Lui si presento' carico di regali e con la proposta di un viaggio insieme, io e lui, a Barcellona. Disse che mi aveva sempre amato, che non riusciva a smettere di pensare a me, che ero la giornalista piu' bella e piu' brava che avesse mai conosciuto e quindi era tornato dal lontano Oriente per farmi la corte. (Si' anch'io rimasi cosi', come voi, a bocca aperta. Manco nei film). Nel giro di una settimana, gli presentavo i miei genitori e ci giuravamo eterno amore.

Si', ma dovevo ancora lavare l'onta.
Ho dovuto chiedere. "Scusa, eh, ma se mi amavi tanto, PERCHE' CAVOLO NON CI HAI MAI PROVATO?"
E lui, innocente, con gli occhioni grandi da Bambi: "Ma, tesoro, perche' ero il tuo capo."
"Embe'?"
"Be', it wouldn't have been appropriate. Non sarebbe stato corretto. Non si fa. Sarebbe stato sexual harassment, sai. Oltretutto poi potevi denunciarmi, e mi avrebbero licenziato e..." IN ITALIA? TI LICENZIAVANO PER AVERCI PROVATO CON UNA DONNA? MA TI PROMUOVEVANO!

Non risposi, ma per impedirgli di dire altre cretinate, lo baciai. Io t'avrei denunciato per non aver allungato le mani, pensa te, pensai tra me e me, ma non aggiunsi altro perche' avevo visto un lampo di moralismo nei suoi occhi che m'aveva fatto un po' tenerezza, un po' paura.

Il resto, un turbine. Pochi mesi dopo, l'americano torno' a Roma per 36 ore, si inginocchio' come nelle barzellette della Settimana Enigmistica, mi fece un discorsetto romantico bellissimo, tiro' fuori una scatoletta rossa, la fece aprire con uno scatto e, porgendomi un solitario di diamanti, mi disse: "Laura, will you marry me?"

Come dite? Che cosa e' successo poi? E mica sono scema, eh. Gli ho detto di si'.


4 comments:

  1. Che bella storia! Laura, ti voglio conoscere, sei così buffa! Perchè non vivi più a Roma?!

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    1. Ha ha grazie Tiffany! Ogni tanto, vengo. Ho seguito l'americano...

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  2. Laura,
    sembri il mio alter ego. Anch'io vivo a LA, ho un marito ebreo americano, due figli, Sara e Matteo (no non Ale ;-) e anch'io ho conosciuto mio marito in una job interview. Solo che alla fine sono io che ho trovato lavoro per lui a roma dove mi ha seguito per amore.
    Leggendo la tua storia mi chiedo cosa sarebbe successo fra me e il mio senzabidet se alla paramount avessero avuto una posizione aperta al momento del nostro incontro.

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